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Super società di fatto o responsabilità da eterodirezione. Il gruppo di imprese alle prese con il fallimento

Il 2016 è stato un anno ricco di pronunce importanti in tema di responsabilità e fallibilità del socio occulto, un tema che, da tempo ormai immemorabile, affascina e divide la giurisprudenza e gli studiosi  senza un approdo definitivo.¹ Come noto, la teoria della società occulta è volta a consentire di aggredire, mediante la sottoposizione a fallimento, il patrimonio di soggetti che abbiano abusato dello schema tipico legale della società di capitali e della limitazione di responsabilità. L’effetto concreto è sostanzialmente simile a quello che, negli ordinamenti anglosassoni, viene realizza attraverso lo strumento del piercing the corporate veil: il socio tiranno acquisisce responsabilità per le obbligazioni sociali.

La notissima sentenza Caltagirone (Cass. Civ. 24 febbraio 1990, n.1439)² sembrava avere dato una sistemazione definitiva alla questione della fallibilità di una società occulta, aprendo la porta al superamento dell’autonomia patrimoniale perfetta. Tuttavia, detta porta sembrava essere stata, almeno in parte, richiusa dalla riforma del diritto societario che ha prediletto un’impostazione che fa leva su una forma di responsabilità risarcitoria e non patrimoniale all’interno del gruppo di società.

Infatti, in tale prospettiva, gli artt. 2497 ss. cod. civ. hanno previsto una forma di responsabilità che presuppone la dimostrazione dell’abuso dei principi di corretta gestione imprenditoriale e la valutazione di eventuali vantaggi compensativi che la partecipazione al gruppo comporta piuttosto che la sottoposizione dell’intero patrimonio del socio di fatto alle regole concorsuali.

Tuttavia, le limitazioni alla possibilità di affermare una responsabilità individuale del socio tiranno per direzione e coordinamento abusiva del gruppo hanno riaperto il ricorso alla teorica della estensione del fallimento alla holding persona fisica. Le Curatele, infatti, hanno promosso questa tipologia di azione che, certamente, appare uno strumento sufficientemente snello ed efficace contro gli abusi più gravi, ma che presenta alcune peculiarità.

La giurisprudenza più attenta che si è occupata della materia della holding di fatto (e in particolar modo della holding personale), infatti, ha richiamato l’esigenza di una verifica rigorosa degli elementi sintomatici dell’impresa. La Cassazione ha stabilito che sia “configurabile una holding di tipo personale allorquando una persona fisica, che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie, svolga professionalmente, con stabile organizzazione, l’indirizzo, il controllo ed il coordinamento delle società medesime, non limitandosi, così, al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio. A tal fine è necessario che la suddetta attività, di sola gestione del gruppo (cosiddetta holding pura), ovvero anche di natura ausiliaria o finanziaria (cosiddetta holding operativa), si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio, fonte, quindi, di responsabilità diretta del loro autore, e presenti altresì obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo e le sue componenti, causalmente ricollegabili all’attività medesima” (in questo senso Cass. S.U. 29 novembre 2006, n. 25275).³ Tuttavia non si è mancato di rilevare che, spesso, la giurisprudenza si è accontantata di un accertamento superficiale della sussistenza di una vera e propria attività di impresa.

In questo quadro, si è sviluppato il contrasto giurisprudenziale tra quelle corti di merito che hanno affermato la possibilità di ricorrere in via analogica alla estensione del fallimento prevista dall’art. 147 L.F. anche nel caso in cui il socio occulto fosse una società di capitali (4) e  quelle corti che, viceversa, hanno ritenuto impossibile tale estensione (5). Il contrasto ha dato, altresì, origine a due pronunce della Corte costituzionale che, chiamata a valutare l’incostituzionalità della norma, ha dato origine a due ordinanze, Corte Cost. 12 dicembre 2014, n. 276 e Corte Cost., 29 gennaio 2016, n.15 entrambe di rigetto.

Le corti che hanno sostenuto l’impossibilità di estendere analogicamente l’art. 147 L.F. alle società di capitali hanno fatto leva prevalentemente su un’argomentazione di carattere letterale. Il fatto che una società di capitali possa essere socia di una società di persone ha certamente eliminato un limite concettuale molto forte alla fallibilità della società occulta; tuttavia, l’articolo 2361 comma 2 cod. civ. prevede che “l’assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle mdesime deve essere deliebrata dall’assemblea” e, in modo analogo, l’art. 111 duodecies disp.att. cod.civ. prevede obblighi informativi per le società di persone partecipate da enti aventi autonomia patrimoniale perfetta. Pertanto, ne discende l’impossibilità per una società di capitali di assumere tacitamente partecipazioni in società di persone, dal momento che vi è un limite legale al potere degli amministratori.

Un’ulteriore linea argomentativa (in realtà a mio parere più convincente), invece, fa leva su una interpretazione di carattere sistematico. Si è detto che la previsione di una responsabilità risarcitoria da direzione e coordinamento (pur pensata per ovviare a eventuali abusi tra società in bonis) e la specificazione che la curatela può esercitare detta azione costituisce la prova che il legislatore ha inteso regolare l’abuso mettendo a disposizione della curatela tale strumento e non l’estensione del fallimento ex art. 147 L.F..  Pertanto, il curatore potrà tutelare i creditori della società eterodiretta facendo valere la responsabilità della capogruppo, quand’anche occulta.

I fautori dell’estendbilità alle società di capitali della disciplina di cui all’art. 147 L.F. fanno un ragionamento che si fonda su ragioni di equità sostanziale, ritenendo irragionevole un trattamento così differenziato tra socio occulto persona fisica e socio occulto persona giuridica.

Nel 2016, sono intervenute alcune decisioni particolarmente importanti perchè, se non sgombrano il campo dai dubbi teorici, costituiscono un passo deciso verso l’affermazione della estendibilità del fallimento alla super società di fatto. Con Cass. Civ. 21 gennaio 2016 n.1095, infatti, il giudice di legittimità ha specificato che la delibera assembleare non costituisce un limite ai poteri degli amministratori che, nell’ambito del loro potere gestorio, possono assumere la qualifica di socio sepppure in via di mero fatto. Pertanto, vincendo l’argomentazione formale della carenza di potere formale, la Cassazione ha affermato l’estendibilità del fallimento ai sensi dell’art. 147 L.F.

Tale orientamento si è ulteriormente consolidato con Cass. Civ. 13 giugno 2016, n.12120, la quale ha ribadito la possibilità per la società di capitali di assumere, in via di fatto, la qualifica di socito di società, sottolineando che quand’anche ricorresse un vizio genetico nell’atto costitutivo della società tra una società a responsabilità limitata ed una persona fisica, ne discenderebbe la conversione in una causa di scioglimento per il principio della conservazione degli atti posti in essere da una società nulla.

Successivamente, sono intervenute due ulteriori pronunce che, nel giungere alla estensione del fallimento, hanno provato ad operare una fusione tra le ragioni di chi ritiene che l’art. 147 L.F. sia lo strumento normativo principe per giungere alla dichiarazione del socio occulto e chi, viceversa, preferisce fare leva sulla responsabilità da direzione e coordinamento.

Infatti, nella sentenza Cass. Civ.. 25 luglio 2016, n. 15346 e nella recentissima Cass. Civ. 22 dicembre 2016, n. 26765, i giudici di Piazza Cavour hanno affermato sia l’estendibilità del fallimento alla holding di fatto, sia la sindacabilità in via incidentale in sede prefallimentare della responsabilità da direzione e coordinamento che può essere elemento di valutazione dell’insolvenza della holding di fatto.

Insomma, affermato con chiarezza il principio (il socio di fatto può fallire anche se ente avente autonomia patrionale perfetta) sembra che la giurisprudenza stia cercando la sistemazione teorica migliore per riportare ad unità due norme, l’art. 147 L.F. e l’art. 2497 cod.civ. che hanno presupposti e meccanismi di funzionamento profondamente diversi, ma obiettivi in parte equiparabili.

Non c’è che da attendere gli sviluppi futuri.

(1) come noto, Walter Bigiavi sviluppò la teoria dell’imprenditore occulto negli anni cinquanta del secolo scorso, cfr. W. BIGIAVI, Responsabilità del socio tiranno, in Foro it., 1969, I, 1180, preceduta da i suoi lavori ID., “L’imprenditore occulto”, Padova, 1954,  ID “Ancora sulla giurisprudenza della Cassazione in tema di società occulta”, Giurisprudenza italiana, 1957, I, ID, “La giurisprudenza della Cassazione sull’ammissibilità della società occulta”, Giurisprudenza italiana, 1957, IV.

(2) La sentenza è molto nota ed ha ricevuto molteplici commenti. Vedi, tra gli altri, Weigmann R, in GIur.it, 1990, I, 713, Libonati B, in Giur.comm, 1991, II, 366.

(3) In modo analogo, si è pronunciata la giurisprudenza di merito. Vedi, tra le altre,  Trib. Genova, 26 settembre 2005, in Società, 2006, 330, Trib. Napoli 8 gennaio 2007, Trib. Vicenza 23 novembre 2006, in Fallimento, 2007, 407, nt. F.Fimmanò; Trib. Roma, 19 dicembre 2012, in Dir.fall., 2014, II 515, nt. F.Murino;

(4) Tribunale di Forlì, Sez. Fall., 9 febbraio 2008, n. 6; Tribunale di Prato, 15 ottobre 2010; Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, 8 luglio 2008; Tribunale di Firenze, 12 agosto 2009, e Tribunale Vibo Valentia, Sez. Fall., 10 giugno 2011

(5) v. Trib. Bergamo 15 giugno 2015; Trib. Bergamo 11 giugno 2015; Trib. Foggia, 3 marzo 2015, in ilfallimentarista.it,  Trib. Santa Maria Capua Vetere, 15.1.2015, in ilcaso.it; Trib. Mantova 30.4.2013, in ilcaso.it; App. venezia, 10.12.2011, in ilcaso.it; App. Torino 30.7.2007, in Nuovo dir. soc. 07, 2219; App. Bologna, 11.6.2008, in Fall. 08, 1293; App. Napoli 5,6,2009, in Nuovo dir. soc., 09, n. 16, 42,