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Responsabilità degli enti ex D.lgs. 231: un quadro d’insieme
Cenni introduttivi
Fino al 2001, in Italia, è rimasto fermo il brocardo per cui “societas delinquere non potest”: alle persone giuridiche non era possibile muovere alcun rimprovero fondante una responsabilità di natura penale.
All’inizio del nuovo millennio, pressioni internazionalistiche e comunitarie (in particolare, la Direttiva PIF dell’Unione Europea in materia di corruzione) hanno spinto l’Italia ad adeguarsi ad una mutata sensibilità più attenta ai corporate crimes.
Nel 2001, quindi, con il decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, è stata introdotta in Italia la responsabilità penale delle persone giuridiche, mediante un modello normativo che, negli anni seguenti, ha ispirato le legislazioni di altri Paesi.
Le obiezioni non hanno tardato ad arrivare e sono state numerose: esse si legavano essenzialmente alla concezione di un diritto penale “umano”, i cui destinatari dovessero necessariamente essere “in carne ed ossa”. D’altra parte, lo stesso articolo 27 della nostra Carta costituzionale stabilisce che la responsabilità penale è personale e che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato: ciò veniva invocato come insuperabile ostacolo ad un diritto penale esteso alle persone giuridiche.
In realtà, come si avrà modo di approfondire, il fondamento della responsabilità penale della persona giuridica è articolato in modo tale da ancorarsi alle persone fisiche operanti nell’organigramma dell’ente collettivo, mediante un rapporto di immedesimazione organica, e pertanto lo scetticismo iniziale ha dovuto cedere il passo alla lettera della legge.
La natura della responsabilità
Una questione centrale, seppur ormai superata, è stata l’identificazione della natura della responsabilità ascritta alla persona giuridica per la commissione di un reato ricompreso nel cosiddetto “catalogo dei reati presupposto” di cui agli articoli 24 e seguenti del decreto (in continua – e talvolta irragionevole – espansione).
Si tratta di una responsabilità penale, amministrativa o mista (dalla dottrina definita di “tertium genus”)?
La tesi che ha assegnato natura amministrativa a tale responsabilità contestava una sorta di “truffa delle etichette”, argomentata sulla base del titolo del provvedimento: “responsabilità amministrativa degli enti derivante da reato”.
Tuttavia, questa impostazione non è stata in grado di imporsi perché l’auspicio, reso esplicito anche dalle Sezioni Unite ThyssenKrupp, è stato quello di imboccare con decisione la strada di una qualificazione in chiave penalistica, comportante, quindi, un controllo rigoroso sul rispetto delle garanzie da parte degli organi giurisdizionali. A sostegno di questa posizione, a dire il vero, è sufficiente ricordare la necessità della commissione di un reato quale presupposto per poter invocare la responsabilità dell’ente.
La giurisprudenza, indossando le vesti del mediatore, si è orientata a favore di una soluzione interpretativa ancora diversa, affermando che nel d.lgs. 231/2001 si staglierebbe un terzo binario punitivo “rispetto ai noti e tradizionali sistemi di responsabilità penale e di responsabilità amministrativa, prevedendo un’autonoma responsabilità amministrativa dell’ente” (Cass., Sez. Un., 27 marzo 2008, n. 26654).
Al di là delle speculazioni dottrinali, ad oggi l’ente può pacificamente incorrere in responsabilità penale.
I presupposti della responsabilità
L’affermazione della responsabilità si fonda su un sistema di regole che prevede forme di colpevolezza “sganciate dal fatto”, in cui il rimprovero è legato al difetto di organizzazione e, quindi, giustificato dal non aver saputo prevedere ed impedire la commissione di uno dei reati presupposto, attraverso l’adozione ed efficace attuazione di un idoneo modello organizzativo e gestionale (anziché per il fatto reato contestato).
Gli autori persone fisiche: il criterio di imputazione soggettivo
Per ascrivere una responsabilità alla persona giuridica è necessario che il reato presupposto sia stato commesso nell’interesse o vantaggio dell’ente (si tratta del criterio oggettivo di cui si dirà più diffusamente in seguito) da parte di due diverse tipologie di autori (questo è, invece, il criterio soggettivo):
Tra gli apicali è possibile ricomprendere i soggetti che esercitano le seguenti funzioni:
Nella categoria dei subordinati rientrano:
Si è generata una qualche incertezza riguardo ai c.d. amministratori dipendenti, ossia coloro che, oltre a svolgere funzioni di gestione della società, intrattengono con la stessa anche un rapporto di lavoro dipendente. Si è ritenuto che, in presenza della doppia qualifica, prevalga quella di soggetto in posizione apicale.
I sindaci, invece, secondo l’orientamento prevalente rientrano tra i sottoposti.
Il RSPP, svolgendo una prestazione di collaborazione, resa in ragione del rapporto di ausiliario e di subordinazione al datore di lavoro, non può essere ricondotto ad alcuna delle figure comprese nella categoria delle persone dotate di veste apicale.
Nel caso in cui il reato sia stato commesso dall’apicale, si applica l’art. 6 del decreto.
L’ente non risponde se prova che:
Laddove il reato sia commesso dal subordinato, si applica, invece, l’art. 7, che prevede che:
I criteri di imputazione soggettivi di cui all’art. 5 d.lgs. n. 231/2001
Per attribuire la responsabilità all’ente è necessario che i soggetti, che per brevità definiremo apicali e subordinati, realizzino il reato presupposto nell’interesse o vantaggio della persona giuridica, come prescrive l’art. 5 del decreto.
Al comma secondo, è prevista la clausola di esonero da responsabilità qualora tali persone abbiano agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi.
Una prima questione fondamentale, che è stata causa di un acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale, riguarda il valore da attribuire alla disgiunzione “o” che lega il vantaggio all’interesse.
Data l’evidente mutevolezza del panorama, è opportuno individuare quantomeno alcuni punti fermi, ad esempio esigendo che il requisito dell’interesse sia concreto ed attuale, e non meramente futuro ed incerto (anche, secondo alcuni, per richiamarsi all’istituto del tentativo, l’idoneità e la non equivocità dell’interesse).
La compatibilità del sistema con i reati colposi
L’opera di adattamento rispetto alla disciplina dei reati colposi, richiamati dall’art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001, è stata molto complessa.
Evidentemente, non è solo improbabile, ma forse impossibile, che si dia il caso di un dirigente, preposto o figura affine, che provochi colposamente la morte o la lesione aggravata di un lavoratore, nel convergente interesse e vantaggio della persona giuridica.
L’ente, infatti, subirebbe certamente un grave danno, provocato da un evento che riverbera i suoi effetti sia sul piano patrimoniale che su quello dell’immagine.
L’escamotage di cui si è avvalsa la giurisprudenza è stato quello di agganciare il criterio oggettivo di imputazione alla condotta, anziché all’evento naturalistico.
In questo modo, diventa possibile muovere un rimprovero all’ente che ha omesso di adottare le regole cautelari in materia di sicurezza, per conseguire un risparmio di spesa o di tempo, che si traduce in modo direttamente proporzionale in aumento del profitto.
In altri termini, e più semplicemente, l’interesse e il vantaggio qui coincidono con il risparmio di spesa sui costi della sicurezza e il guadagno sui tempi operativi per la realizzazione dell’attività produttiva.
Resta comunque aperta l’ipotesi dell’evenienza in cui si sia verificata una mera sottovalutazione del rischio, dovendosi attendere una presa di posizione più netta da parte della giurisprudenza.
I modelli di organizzazione, gestione e controllo
Il giudice, ai fini del giudizio di idoneità del modello, deve adottare il criterio epistemico-valutativo della c.d. prognosi postuma: deve, cioè, idealmente collocarsi nel momento in cui l’illecito è stato commesso e verificare se il comportamento alternativo lecito (ossia l’osservanza del modello organizzativo virtuoso) avrebbe eliminato o ridotto il pericolo di verificazione di illeciti della stessa specie di quello verificatosi, non essendo invece richiesta una valutazione della compliance secondo le regole cautelari di tipo globale.
Il legislatore esige che il reato della persona fisica sia espressione della politica aziendale o derivi comunque da una colpa nell’organizzazione dell’attività dell’ente.
Il sistema 231 prevede l’adozione ed efficace attuazione di un MOG (modello di organizzazione, gestione e controllo) che svolge un duplice ruolo:
L’apparato sanzionatorio: la formula binaria
All’articolo 9 del d.lgs. 231/2001 sono elencate le sanzioni amministrative (ma, come detto, sostanzialmente penali) conseguenti alla commissione del reato da parte dell’ente.
Il primo comma indica la scelta tipologica tra:
Il secondo comma, invece, esplicita le cinque diverse forme nelle quali possono essere declinate le ipotesi sanzionatorie di tipo interdittivo:
I meccanismi premiali
Il decreto mette, inoltre, a disposizione dei destinatari una serie di soluzioni premiali attuabili post factum con effetto riduttivo sulla scala di gravità delle sanzioni pecuniarie e una possibile esclusione delle ben più temibili sanzioni interdittive, a patto che comunque si proceda ad una effettiva riorganizzazione dell’ente.
L’articolo 17 del d.lgs. 231/2001 esclude l’applicazione delle misure interdittive quando, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, concorrono le seguenti condizioni:
Commisurazione delle sanzioni
In base all’articolo 11 del d.lgs. 231/2001 la sanzione pecuniaria è commisurata dal giudice, che determina il numero delle quote, tenendo conto della gravità del fatto, del grado della responsabilità dell’ente, nonché dell’attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti. In base al secondo comma, l’importo della quota è fissato sulla base delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente allo scopo di assicurare l’efficacia della sanzione.
Le sanzioni interdittive possono essere erogate solo quando espressamente previste dalla legge e quando ricorre almeno una delle due condizioni alternative poste dall’articolo 13 del decreto:
Quanto alla scelta del tipo e della durata della misura interdittiva da irrogare all’ente, esse sono discrezionali: in base all’articolo 14 del decreto, si commisura in base alla gravità del fatto, al grado di responsabilità dell’ente, nonché all’attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti.
Ad aggravare ulteriormente l’efficacia sanzionatoria, il comma terzo prevede che, qualora il giudice lo reputi necessario, le sanzioni interdittive si possono applicare anche congiuntamente.
Considerazioni conclusive
Non c’è alcun dubbio che le sanzioni interdittive abbiano un impatto molto più minaccioso per l’ente rispetto alla sanzione pecuniaria.
Per usare le parole di autorevole dottrina: “Se il difetto principale della sanzione pecuniaria risiede proprio nel pericolo di essere percepita dall’ente come un ordinario “rischio d’impresa” (se non, addirittura, come un “costo di gestione” potenzialmente affrontabile anche in via preventiva o comunque scaricabile come altri costi sui clienti o consumatori), per contro, le sanzioni interdittive si caratterizzano per una più marcata afflittività/dissuasività, grazie al fatto di poter incidere con varie modulazioni di pregiudizio direttamente sullo svolgimento delle attività tipiche della societas” (N. VALIANI, La sanzione pecuniaria agli enti).
Per maggiori informazioni: [email protected].
Marco Amorese
Cecilia Medri