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L’organo giudicante chiamato a verificare la legittimità di un licenziamento è tenuto ad effettuare una disamina della condotta tenuta dal dipendente, al fine di valutare se la stessa possa costituire una giusta causa o un giustificato motivo per l’interruzione del rapporto di lavoro secondo la clausola generale dell’art. 2119 c.c.. Come noto, infatti, l’art. 18 S.L., riformato nel 2012, prevede che “il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro”. La riforma del 2012, i cui obiettivi erano di assicurare maggiore prevedibilità delle decisioni giurisprudenziali, ha tuttavia generato una ampia casistica incentrata sull’individuazione dei margini di discrezionalità del giudice.

Uno dei punti più dibattuti in relazione al licenziamento per giusta causa o per motivo soggettivo è la vincolatività, per il giudice, della casistica enumerata nella contrattazione collettiva. Se è indubbio che la contrattazione collettiva costituisca uno dei parametri cui il giudice deve fare riferimento per attribuire contenuto alla clausola generale dell’art. 2119 c.c., la giurisprudenza ha tradizionalmente attribuito all’organo giudicante la facoltà di riempire di contenuto in modo autonomo e discrezionale le nozioni legali di “giustificato motivo soggettivo” o di “giusta causa” aderendo ad una valutazione propria della gravità dei fatti contestati, pur nell’ambito della scala valoriale restituita dalla contrattazione collettiva. Rimane salvo il caso in cui la contrattazione collettiva preveda esplicitamente solo una sanzione conservativa, nel qual caso il Giudice non ha facoltà di trascurare la fonte negoziale in quanto più favorevole al lavoratore.

La Suprema Corte con la recente pronuncia (Cass. Civ. Sezione Lavoro n. 14500-2019) ha inteso riaffermare la coerenza del riformato articolo 18 con l’orientamento tradizionale e ribadire la sussistenza di un limite alla discrezionalità del giudice. Infatti, ove la contrattazione collettiva stabilisca che ad un determinato comportamento consegua solamente una sanzione conservativa, il giudice deve considerarsi vincolato alla fonte negoziale, in quanto previsione di maggior favore per il lavoratore fatta salva dal legislatore. Tuttavia, la Corte ha affermato che
solo ove il fatto contestato al dipendente e dimostrato sia espressamente contemplato nella contrattazione collettiva di riferimento come condotta punibile con una sanzione conservativa il licenziamento irrogato è illegittimo e meritevole di sanzione reintegratoria di cui all’art. 18, comma 4 L. 300/1970.

La vicenda al vaglio della Cassazione traeva origine dal ricorso formulato da un lavoratore (quadro) avverso la pronuncia della Corte di appello di Milano che, in accoglimento del reclamo della società datrice di lavoro, condannata in primo grado a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, aveva riformato la pronuncia del Tribunale del capoluogo, condannando la società a versare al lavoratore solo l’indennità di cui all’art 18, comma 5 L. 300/1970 ed escludendo la richiesta del dipendente di ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro, poiché la condotta allo stesso contestata non era contemplata tra quelle punibili con sanzioni conservative alla luce del
contratto collettivo applicabile.

La Suprema Corte, nel rigettare il motivo di ricorso, ha valorizzato l’importanza dell’attività interpretativa delle previsioni delle fonti negoziali collettive in merito alle clausole negoziali contenute in accordi collettivi (tra cui quelle che contengono sanzioni conservative) che, costituendo un’eccezione al principio generale, devono essere interpretate restrittivamente (l’interprete deve, secondo un canone di ragionevolezza, valutare la possibilità di estendere l’esemplificazione nell’accordo collettivo a ipotesi non esplicitamente previste ma ragionevolmente attribuibili alla volontà delle parti) e, come tali, applicate ai soli casi espressamente indicati, senza così estendere la tutela reintegratoria a casi non previsti, sulla base di una valutazione discrezionale dell’uguale grado di disvalore disciplinare.

La condotta contestata al prestatore ricorrente (utilizzo di frasi di natura erotico – sessuale nel corso di conversazioni telefoniche effettuate con mezzi aziendali e alla presenza di una collega) non è stata ritenuta dalla Corte di appello come una giusta causa di licenziamento, ma nemmeno una condotta da sussumere nelle condotte punite con sanzioni conservative dal contratto collettivo di riferimento. Pertanto, ha ritenuto condivisibile la decisione della Corte distrettuale di applicare la sanzione di cui all’art. 18, comma 5 L. 300/1970.

Il provvedimento si innesta nel solco delle decisioni di legittimità che circoscrivono il potere discrezionale del giudice cercando, tuttavia, un equo temperamento tra le esigenze di certezza e il possibile abuso dello strumento contrattuale che una valutazione troppo letterale del contratto può provocare

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avv. Serena Baronchelli

avv. Marco Amorese