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La CGUE afferma la responsabilità diretta degli gestori di piattaforme di vendita online nella causa Louboutin contro Amazon
Internet, sempre più presente nella nostra vita quotidiana, è certamente un grande fattore di progresso e innovazione, ma rappresenta anche una minaccia per alcuni operatori, in particolare per i titolari di diritti di proprietà intellettuale. Lo sviluppo di mercati online come Amazon, eBay o Leboncoin ha aumentato notevolmente il rischio di commercializzazione di prodotti contraffatti. Il caso Louboutin, oggetto di quest’articolo, ne è un emblematico esempio in cui Amazon è stata accusata di aver pubblicato sul suo sito pubblicità relative a scarpe con suole rosse che assomigliano alle famose scarpe di lusso Louboutin. La questione di fondo è se sia possibile attribuire una responsabilità per la violazione del diritto di marchio agli intermediari online, cioè ai gestori di marketplace online come il gigante Amazon. Esistono difficoltà spesso insormontabili nell’attribuire la responsabilità di un’atto di contraffazione al vero venditore, che spesso è difficile da localizzare, da portare in tribunale e la cui solvibilità è dubbia. Al contrario, il gestore della piattaforma di vendita online che il venditore terzo ha utilizzato è facilmente identificabile, raggiungibile giudizialmente e generalmente più solvibile. È quindi preferibile per la vittima della violazione intraprendere un’azione contro il gestore. Tuttavia, il diritto positivo fornisce un’elevata protezione agli intermediari online, ed è in concreto difficile ottenere in giudizio una sentenza che affermi la loro responsabilità, diretta o indiretta.
Per quanto riguarda la responsabilità diretta dei gestori di piattaforme online per violazione di un diritto di marchio (in discussione nel caso in esame), l’ostacolo maggiore risiede nella nozione di uso. L’articolo 9 del Regolamento UE 2017/1001 conferisce al titolare di un marchio UE il diritto esclusivo di vietare a terzi di usare nel commercio un segno identico o simile al proprio marchio per prodotti o servizi identici o simili a quelli per i quali il marchio è stato registrato. Il paragrafo 3 elenca i tipi di uso che possono essere vietati dal titolare del marchio, tra cui “l’offerta, l’immissione in commercio o lo stoccaggio dei prodotti a tali fini”. In assenza di una definizione testuale, ci si può chiedere in quali circostanze si deve ritenere che il gestore del mercato online abbia “usato” un segno identico al marchio in questione. Pertanto, la CGUE ricorda in questa sentenza che l’espressione “usare” implica un comportamento attivo e un controllo, diretto o indiretto, sull’atto che costituisce l’uso (Daimler, causa C-179/15, 2016). In effetti, l’obiettivo dell’articolo 9 è quello di fornire al titolare del marchio uno strumento giuridico che gli consenta di far cessare ogni uso del suo marchio operato da terzi senza il suo consenso; orbene, solo una persona che abbia il controllo sull’atto che costituisce “uso” è effettivamente in grado di far cessare tale uso.
Inoltre, dalla sentenza Google (cause da C-236/08 a C-238/08, 2010) e secondo una giurisprudenza consolidata, la Corte ritiene che l’uso da parte di un intermediario online implichi che quest’ultimo utilizzi il segno illegittimo nella propria comunicazione commerciale. Questa condizione relativa all’uso del segno nella comunicazione commerciale, che costituisce “il cuore della nozione di uso” (per riprendere l’espressione dell’avvocato generale Maciej Szpunar nelle sue conclusioni nel caso in questione), ha portato ad escludere la responsabilità diretta dell’intermediario online, almeno sino ad oggi. Ad esempio, nel caso Coty Germany (C-567/18, sentenza pronunciata nel 2020), i giudici europei hanno ritenuto che il semplice magazzinaggio da parte di Amazon di prodotti recanti un segno identico ad un marchio UE non costituisce di per sé un uso di tale segno nella propria comunicazione commerciale, escludendo di conseguenza la responsabilità diretta di Amazon.
Tuttavia, anche qui la nozione di “comunicazione commerciale” è rimasta abbastanza oscura e imprecisa. La sentenza Louboutin, alla luce delle conclusioni dell’avvocato generale, consente una definizione più chiara della “comunicazione commerciale”. Pertanto, per comunicazione commerciale “si intende qualsiasi forma di comunicazione destinata a terzi, volta a promuovere la propria attività, i propri beni o servizi” (punto 39 della sentenza). Entra quindi in gioco una nuova dimensione: la percezione da parte del pubblico. Essendo destinata a terzi, in particolare agli internauti e utenti della piattaforma, e avendo lo scopo di far conoscere loro l’attività dell’impresa, la comunicazione commerciale può essere definita solo dal punto di vista di tali utenti. Di conseguenza, l’uso di un segno in violazione di un marchio altrui da parte di un intermediario online nella propria comunicazione commerciale presuppone che tale segno sia considerato, agli occhi degli utenti, come parte integrante dell’intermediario.
Per questo motivo, la Corte spiega nella sentenza Louboutin che si può ritenere che il gestore di un mercato online, come Amazon, usi un segno identico ad un marchio altrui quando l’utente “normalmente informato e ragionevolmente attento” ha l’impressione che sia il gestore stesso a commercializzare prodotti recanti il segno identico, e non il venditore terzo. A questo proposito, sono rilevanti le modalità di presentazione degli annunci e la natura e l’ampiezza dei servizi offerti dal gestore al venditore terzo. Da un lato, la scelta di una presentazione uniforme dei prodotti sulla piattaforma, che non consente di distinguere i prodotti del gestore da quelli di venditori terzi, può generare confusione, in particolare quando il logo del gestore compare su tutti gli annunci. Inoltre, questa confusione nella mente dell’utente è rafforzata dai vari servizi complementari offerti dal gestore al venditore terzo, in particolare lo stoccaggio e la spedizione di prodotti recanti un segno identico ad un marchio registrato. Tutti questi elementi porta l’utente normalmente informato e ragionevolmente attento a pensare che non sia il venditore terzo a commercializzare il prodotto recante il segno ma il gestore del marketplace, che quindi usa siffatto segno ai sensi dell’articolo 9 del Regolamento 2017/1001.
Commento:
Portando in primo piano la percezione da parte dell’utente, la CGUE sembra segnare una svolta in termini di responsabilità diretta degli intermediari online per violazione di un diritto di marchio emette una sentenza in contrasto con l’orientamento finora prevalente. Tuttavia, questa sentenza è criticabile sotto alcuni aspetti.
In primo luogo, ritenere che lo stoccaggio e la spedizione del prodotto recante il segno identico al marchio altrui da parte di Amazon influenzi l’utente e lo porta a credere che sia Amazon ad usare tale segno sembra contraddire la posizione precedentemente adottata dalla Corte nella causa Coty. Infatti, in Coty, la CGUE aveva chiaramente spiegato che una persona che “conservi per conto di un terzo prodotti che violano un diritto di marchio, senza essere a conoscenza di tale violazione, si deve ritenere che non stocchi tali prodotti ai fini della loro offerta o della loro immissione in commercio” ai sensi del Regolamento 2017/1001. Pertanto, lo stoccaggio di tali prodotti da Amazon non ha avuto un impatto sulla qualificazione di uso di un segno identico, a condizione ovviamente che Amazon non fosse a conoscenza della violazione. Perché la soluzione dovrebbe essere diversa quando il gestore del mercato online, oltre a conservare il prodotto, la spedisce per conto del terzo? Questo è uno dei motivi per cui l’avvocato generale Maciej Szpunar giunge a una conclusione diversa da quella della Corte, nonostante un ragionamento simile sull’importanza della percezione dell’utente.
In secondo luogo, a cosa si riferisce esattamente l’utente “normalmente informato e ragionevolmente attento”? La sentenza, che manca di precisione nella definizione di questo standard, può essere interpretata alla luce delle conclusioni dell’avvocato generale. Secondo Szpunar, alcuni utenti delle piattaforme di vendita online non prestano molta attenzione all’identità del venditore ma si concentrano piuttosto sul prodotto e sul prezzo. Ha quindi deciso di non prendere quest’utente come standard, preferendo un utente “normalmente informato e ragionevolmente attento”. A suo avviso, tale utente è consapevole del fatto che Amazon, in quanto distributore di grande popolarità, pubblicizza sia i propri prodotti che quelli di venditori terzi, per cui il modo in cui il sito viene presentato non può indurlo in errore e fargli pensare che i segni visualizzati negli annunci dei venditori terzi facciano parte della comunicazione commerciale di Amazon stessa, anche se il logo di Amazon compare su tutti gli annunci. Richiedere un tale grado di informazione all’utente potrebbe tuttavia essere un po’ eccessivo e portare ad una iperprotezione dell’intermediario online. In realtà, la maggior parte dei consumatori online è, al contrario, poco informata, per cui potrebbe essere razionale prendere come standard un utente certamente meno attento, ma più aderente alla realtà. Da parte sua, non offrendo una definizione dell’utente normalmente informato e ragionevolmente attento, la Corte sembra aspettarsi dall’utente un livello inferiore di conoscenza rispetto all’avvocato generale, poiché la sua soluzione è molto diversa: per essa, infatti, l’utente di Internet ha avuto l’impressione che il segno identico del marchio UE fosse parte integrante della comunicazione commerciale di Amazon.
In conclusione, questa sentenza rappresenta un passo avanti nella definizione della nozione di “uso” di un segno identico a un marchio UE da un intermediario online. Includere la percezione dell’utente in questa definizione appare opportuno, e consente al titolare di un marchio di fare valere la responsabilità diretta del gestore di un mercato online per l’uso di un segno identico al proprio marchio. Tale soluzione è soddisfacente in considerazione del ruolo centrale degli intermediari online nella proliferazione del fenomeno di contraffazione: anche se non sono direttamente all’origine della contraffazione, infatti, è grazie alle piattaforme di vendita online che tali prodotti ottengono maggiore visibilità. Questa decisione, insieme al Regolamento 2022/1925 relativo a mercati equi e contendibili nel settore digitale, appena entrato in vigore (nel novembre 2022), segna un’evoluzione nella posizione dell’UE nei confronti degli intermediari online e denota una crescente volontà di responsabilizzarli. A questo proposito, il nuovo regolamento intende porre fine alle pratiche sleali delle piattaforme online che operano da gatekeeper, a pena di sanzioni e ammende comminate dalla Commissione europea.
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Marco Amorese
Jeanne Deniau