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Di fronte ad esigenze etiche e di sostenibilità sempre più elevate del consumatore rispetto ai prodotti che acquista, la maggior parte delle imprese, soprattutto multinazionali, pubblica i cosidetti “codici etici”. Adottato dall’impresa stessa, il codice etico aziendale è un documento di autodisciplina che raccoglien l’insieme dei valori e delle regole sociali, morali ed ambientali che l’impresa intende rispettare, anche nei rapporti con i soggetti interni (dipendenti per esempio) ed esterni ad essa (altri collaboratori). Ma cosa succede se l’impresa stessa viola il proprio codice interno?

In Italia, il fenomeno dei codici etici si è sviluppato dopo l’adozione del D.Lgs n. 231 dell’8 giugno 2001 relativo alla responsabilità amministrativa degli enti per i reati commessi nel loro interesse. Siffatti codici sono pertanto diventati uno strumento di controllo preventivo dei reati 231. In caso di violazione del codice da parte di dipendenti o altri soggetti dell’azienda, vengono previste sanzioni disciplinari interne. Ma per quanto riguarda le violazioni da parte dell’impresa stessa, esistono controlli esterni? La violazione delle disposizioni del codice etico che recepiscono il D.Lgs 231 comporterà ovviamente la responsabilità dell’ente; ma che dire della violazione delle disposizioni che non integrano un estremo di reato ex D.Lgs 231/01? Il carattere volontario della loro adozione solleva la questione del valore giuridico attribuibile ad essi, con riferimento al quale alcune suggestioni possono essere trovate all’estero.

In particolare, un caso statunitense di rilievo, Nike v. Kasky, ha risolto per la prima volta la questione giuridica del mancato rispetto di un codice etico aziendale. Nella fattispecie, Nike è stata citata in giudizio per communicazioni commerciali false ed ingannevoli in relazione ad una campagna sulle condizioni lavorative nelle sue fabbriche. Nel 2003, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha emesso una sentenza in cui riteneva che la pubblicazione di tali informazioni sulle proprie attività comportasse un obbligo di verità da parte dell’impresa, che poteva quindi essere ritenuta responsabile per il caso di informazione fuorviante.

Anche in Francia è ormai comunemente accettato che le disposizioni a tutela dei consumatori possano essere invocate in tali situazioni. Nel rendere pubblico il proprio codice etico, l’impresa lo rende un vero e proprio strumento di marketing in grado di orientare il comportamento dei consumatori e di ingannarli sulle condizioni sociali in cui vengono fabbricati i prodotti. I consumatori che ritengono di essere stati ingannati da tale pubblicità contenuta nel codice possono quindi agire per pratica commerciale ingannevole, ai sensi dell’articolo L121-2 del Codice di consumo francese. Vengono elencate le prassi costitutive di una pratica commerciale ingannevole, tra cui l’uso di indicazioni false o tale da indurre in errore per quanto riguarda “la portata degli impegni dell’inserzionista”. Inoltre, prendendo atto del fenomeno del greenwashing, la legge francese “Clima e Resilienza” ha inserito nel 2021 un riferimento esplicito agli impegni ambientali. In caso di violazione, l’articolo L132-2 del Codice di consumo francese prevede una multa di 300.000 euro, o pari al 10% del fatturato medio annuale, oppure al 50% delle spese sostenute per la realizzazione di tale pubblicità (l’80% nel caso di affermazioni ambientali).

Queste disposizioni sulle pratiche commerciali ingannevoli, derivanti dalla Direttiva 2005/29/CE, sono anche state recepite nell’ordinamento italiano, agli articoli 21, 22 e 23 del Codice del consumo. Inoltre, la Commissione europea ha recentemente pubblicato una proposta di direttiva per rafforzare la protezione dei consumatori contro le dichiarazioni ambientali inattendibili o false, vietando in particolare il greenwashing. Per ulteriori informazioni su questa proposta, consulta il sito web ufficiale dell’UE al seguente link: https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/ip_22_2098.

Tuttavia, in pratica, le suddette disposizioni francesi incontrano una serie di ostacoli che impediscono l’ammissibilità delle azioni. Mentre il caso contro Auchan dopo il crollo del Rana Plaza in Bangladesh rimane irrisolto, quello contro Samsung France, accusata di aver violato i suoi impegni etici in Cina, è stato recentemente respinto. Secondo la Corte di Cassazione francese (con sentenza del 29 marzo 2022), la ONG parte attrice non era titolare della legittimazione necessaria ad intraprendere un’azione legale in materia di consumo. In effetti, l’articolo L623-1 del Codice del consumo francese limita le azioni di gruppo alle associazioni di tutela dei consumatori autorizzate. Attualmente, sul territorio nazionale, solo quindici associazioni soddisfano i requisiti francesi e godono quindi di legittimazione attiva. Appare evidente che a fronte di un quadro giuridico incerto nei paesi membri dell’UE (e diffidente verso un utilizzo diffuso delle azioni di classe), l’ordinamento giuridico statunitense, con il suo favore verso le class action, risulta destinato ad assicurare una tutela ben più incisiva.

Ovviamente, molto dipenderà dall’attenzione e dalla sensibilità che le associazioni consumeristiche o i consumatori sapranno avere e dalla loro capacità di rivestire un ruolo attivo nel richiamare le aziende ad adempiere con correttezza ai propri obblighi di verità.

Per saperne di più, non esitare a contattarci al seguente indirizzo email: [email protected].

Marco Amorese

Jeanne Deniau